Seconda intervista di Telestense sulla Mostra di Palazzo dei Diamanti Carlo Bononi, l'ultimo sognatore dell'Officina ferrarese: all'interno delle attività speciali legate a questa Mostra si è inserita la prima edizione di Ferrara Monumenti Aperti dedicata al '600 ferrarese con il progetto di scrittura e narrazione Le Parole della Bellezza che ha coinvolto circa 900 alunni delle scuole ferraresi. A guidare gli alunni, un mio racconto: Carlo, l'angelo e il Seicento che trovate qui sotto.
Ferrara Monumenti Aperti 2017
Le
parole della bellezza
progetto
di scrittura e narrazione
Carlo,
l'angelo e il Seicento
di
Luigi Dal Cin
La tela e il pennello
Un
semplice pezzo di tela: ne aveva visti così tanti nella sua vita...
e non era certo un pezzo di lusso, piuttosto un avanzo di qualche
gigantesca tela che era servita per chissà quale dipinto.
Un ampio
straccio di tela, insomma.
Un giorno
quel pezzo di tela, di cui nessuno sapeva più cosa fare, arrivò
nella bottega di un grande pittore di nome Carlo Bononi.
Era un
uomo ormai avanti negli anni, la sua barba era bianca, ma nel vedere
quello straccio di tela si rallegrò tutto.
Osservò
il pezzo di tela. Lo accarezzò, socchiuse gli occhi, lo sentiva
ruvido sotto le dita.
‘Perfetto!
– pensò – Questo finalmente sarà per me... dopo averlo dipinto
lo porterò con me, per sempre’.
Così
prese il pennello con cui stava dipingendo San Luigi di Francia che
scongiura la peste e lo intinse nei colori ad olio.
E stava
già per tracciare un segno sulla tela, quando rimase con la mano
sospesa in aria.
“Non
con il pennello, che mi fai il solletico!”.
Il
vecchio pittore rimase immobile.
Girava
intorno gli occhi smarriti per vedere da dove fosse venuta quella
voce. Ma non c’era nessuno. Allora guardò sotto il banco. Nessuno.
Aprì l’armadio dove teneva i disegni. Nessuno.
“Si
vede che quella voce me la sono immaginata – pensò riprendendo in
mano il pennello – Ma se invece c’è qualcuno nascosto in questo
pezzo di tela, be’, allora ci penserò io a tirarlo fuori!”.
E
cominciò così a dipingere.
Ad ogni
gesto con il pennello, un segno sulla tela.
Un gesto,
un segno, un gesto, un segno.
Andò
avanti così per molto tempo, e non si curò più di nulla. Nemmeno
di mangiare. Nemmeno di dormire. A una certa età ci sono cose molto
più importanti.
Completamente
assorto nella sua creazione, teneva gli occhi socchiusi mentre
dipingeva, e ogni tanto si allontanava per vedere quale forma stesse
prendendo la sua opera.
Ormai era
chiaro.
Aveva la
forma dei suoi sogni.
Un frullo
d’ali.
Carlo era
rimasto senza parole.
Fissava
la propria creazione, e provava un’intensa meraviglia.
“Sei
mio padre?” gli chiese l’angelo volgendo lo sguardo intorno.
Carlo lo
guardò con dolcezza: “Ti ho dipinto io”.
“E io,
chi sono?” chiese l’angelo.
“Tu sei
la mia speranza, Genio delle Arti”.
“Grazie
per avermi liberato dalla tela” disse l’angelo.
Due terremoti
Il nuovo secolo, il
Seicento, si era aperto dopo due terremoti che, in meno di
trent'anni, avevano sconvolto Ferrara.
Carlo Bononi, il mio
creatore, me lo diceva spesso: “Due terremoti che hanno cambiato
per sempre il volto di Ferrara”.
Nel 1570 avvenne infatti
un devastante terremoto che danneggiò molti edifici di Ferrara, tra
cui quelli sacri, proprio come è accaduto in questa città più di
recente, con il terremoto del 2012.
L'altro non fu un vero
terremoto 'fisico' ma un terremoto politico che riguardò un grande
cambiamento nel governo della città: nel 1598 si compì la
Devoluzione, ovvero Ferrara passò dal governo dei Duchi Estensi al
governo dello Stato Pontificio.
Poiché il duca Alfonso
II non aveva avuto eredi maschi, alla sua morte gli succedette il
cugino Cesare. Ma esisteva da tempo un documento papale che stabiliva
che se la discendenza non fosse avvenuta attraverso successori
diretti, ovvero attraverso figli maschi, il ducato sarebbe dovuto
tornare sotto il governo dello Stato Pontificio. Gli Estensi furono
così costretti a lasciare Ferrara.
Cesare d'Este se ne andò
dalla città nel gennaio 1598 insieme a tutte le opere d'arte
proprietà degli Estensi con un triste corteo composto da pochi
fedelissimi, solo 38 tra le centinaia di persone che avevano un tempo
affollato la Corte Estense. Nella direzione opposta il corteo
trionfale dei nuovi governatori di Ferrara fu sfarzoso e ricco di
figure illustri, tra cui lo stesso papa Clemente VIII, il quale
giunse di persona a prenderne possesso, trattenendosi per oltre sei
mesi, così da aver modo di visitare e conoscere città e territorio.
Alla sua partenza, l’ex ducato aveva già ricevuto una nuova forma
di governo: a rappresentare ed esercitare il potere temporale sarebbe
stato un cardinale col titolo di legato pontificio. E così, in
qualità di 'legato pontificio', il cardinale Pietro Aldobrandini,
nipote di Clemente VIII, fu nominato governatore di Ferrara, e iniziò
in questo modo un nuovo capitolo della storia di Ferrara.
Fu proprio la Devoluzione
la causa che portò alla dispersione delle opere d'arte che, ad
esempio, ornavano il Castello: quei dipinti, portati via dal Castello
e venduti poi per necessità, dopo essere passati di mano in mano ora
si trovano nei maggiori musei del mondo.
Ferrara passò quindi da
corte europea centro di arte e di cultura a provincia ai confini del
vasto Stato Pontificio. E proprio perché città di confine,
l'autorità pontificia si preoccupò di edificare una grandiosa nuova
Fortezza che andava a cancellare definitivamente antichi e importanti
simboli degli Estensi come la Delizia di Belvedere e Castel Tedaldo.
Per far posto alla Fortezza, infatti, si rase al suolo un intero
rione cittadino, con case, chiese e palazzi, e si edificò una
gigantesca struttura difensiva a forma di stella a 5 punte, provvista
di mura e terrapieni.
Ma se la Devoluzione
sembrava portare Ferrara verso un inesorabile declino, in realtà
l'arrivo del governo pontificio richiamò in città numerosi ordini
religiosi e l'attività di ricostruzione e rinascita necessaria dopo
il sisma del 1570 offrì occasioni di nuove creazioni artistiche che
resero originale ciò che avvenne a Ferrara per buona parte del
Seicento.
Innanzitutto sotto la
spinta dei numerosi ordini religiosi che fiorirono in città dopo
l'arrivo dello Stato pontificio, per ricostruire ciò che era stato
danneggiato o distrutto dal terremoto del 1570, furono edificate
nuove chiese e nuovi monasteri, in cui mostrare nuovi dipinti,
secondo il nuovo gusto dell'epoca e i nuovi dettami che il Concilio
di
Trento richiedeva
ai pittori di storie sacre.
Tre
regole
Nel Seicento arrivò infatti a maturare
la consapevolezza dell’importanza dell’immagine nei luoghi sacri.
Il Concilio di Trento – la riunione di tutti i vescovi del mondo
per rinnovare la Chiesa che si concluse nel 1563 – lo sottolineò:
la raffigurazione di temi religiosi nell’arte era da considerarsi
utile per illustrare i fatti sacri agli occhi di chi non poteva o non
sapeva leggere le Scritture.
In
un passo del decreto del Concilio si dice: “il popolo venga
istruito, a mezzo di raffigurazioni pittoriche, sui misteri della
nostra redenzione affinché si rafforzi l'abitudine di avere sempre
presenti i princìpi della fede”.
Questo
si tradusse in tre esortazioni per tutti gli artisti che volevano
dipingere opere sacre. I loro dipinti dovevano uno: risultare chiari,
semplici, comprensibili a tutti; due: risultare realistici (ad
esempio, il martirio dei santi o di Gesù doveva essere presentato
con precisione e verosimiglianza, fin nei minimi particolari, in modo
che chi osservava si convincesse che non si trattava di fantasie, ma
di realtà davvero accadute); tre: muovere i cuori all'emozione e
alla compassione (ad esempio i gesti delle mani, l'espressione dei
volti, la posizione del corpo dei personaggi ritratti nei dipinti
dovevano essere sensazionali, drammatici, teatrali: dovevano
emozionare in modo da suscitare un sentimento forte di pietà
religiosa e di compassione verso il prossimo; in modo insomma che chi
aveva ammirato quel dipinto non rimanesse indifferente come prima, ma
se ne andasse con il cuore cambiato).
Giovanbattista Aleotti
fu, in quel periodo, l'innovatore ferrarese nel campo
dell'architettura: portò in città lo stile Barocco che in quel
momento era di grande attualità a Roma. È lui che progettò, ad
esempio, la chiesa di San Carlo, l'Oratorio dell'Annunziata, la
chiesa di Santa Francesca Romana, la torre campanaria della basilica
di San Francesco.
Carlo Bononi, il mio
creatore, fu invece, in quegli anni, l'innovatore ferrarese nel campo
della pittura.
E
io ne sono molto orgoglioso.
Cuore liquefatto
Carlo
seppe mettere su tela con grande passione le esortazioni che il
Concilio di Trento aveva fatto a tutti gli artisti che volevano
dipingere opere sacre.
Per
secoli il mio creatore, Carlo Bononi, come del resto l'arte di tutto
Seicento ferrarese, è rimasto in ombra, offuscato dalla
straordinaria luminosità dell'arte rinascimentale della Ferrara
degli Estensi. Eppure Carlo fu un artista unico che seppe
interpretare in modo sublime e appassionato il desiderio di Dio
tipico del suo tempo.
Carlo
riusciva a mettere sempre al centro delle sue opere l’emozione e la
compassione, il rapporto profondo e sentimentale tra le figure
dipinte e l’osservatore. Negli anni drammatici dei contrasti
religiosi, dei terremoti e delle pestilenze, il sapiente utilizzo
della luce e delle ombre e lo spettacolare uso alla teatralità dei
gesti e delle espressioni dei personaggi dipinti fanno di lui uno dei
primi pittori barocchi d'Italia, come testimoniano le straordinarie
decorazioni di Santa Maria in Vado.
Ma
Carlo, nelle sue opere, seppe calare il sacro nella realtà
quotidiana, incarnando santi e madonne in persone reali e concrete: i
suoi martiri e i suoi santi, in particolare, hanno corpi dipinti con
una perfezione straordinaria, così come natura li aveva fatti. Era
un naturalista: sapeva mostrare la natura reale degli ambienti, dei
paesaggi e delle persone. Nelle sue tele si divertiva a rappresentare
piccoli veri particolari quotidiani che danno il sapore della
realtà... le sue opere sono insomma, come chiedeva la Chiesa,
realistiche. E riusciva a far dialogare il naturalismo che sta in
terra con la sacralità che sta in cielo.
Si
può notare molto bene il suo naturalismo, ad esempio, nella
'Esaltazione del nome di Dio' dipinta ad olio nel catino dell'abside
della basilica di Santa Maria in Vado. Se osserviamo con attenzione
ci accorgeremo che tutti i corpi, specie quelli non vestiti, sono
ritratti con una grande perfezione e, in particolare gli angeli,
assumono qualsiasi posa un corpo possa assumere nello spazio. Sono
corpi che sembrano davvero reali da quanto sono perfetti! E così
tutti gli angeli sembrano fare una specie di grandiosa felice
ginnastica danzante sulle nuvole intorno al nome di Dio. Tutto questo
trasmette una forte sensazione di libertà, tanto che ogni volta che
osservo quel dipinto mi viene voglia di volare per muovermi anch'io
libero nello spazio.
Ma
il suo naturalismo si può notare ad esempio anche nelle 'Nozze di
Cana' del presbiterio dove Carlo riesce a farci vedere una festa nel
Seicento come fosse una foto, dipingendoci particolari verosimili:
come il ragazzo che, sorridendo, getta fiori dalla balconata, o come
il cantore che cerca di riacciuffare lo spartito che gli è volato
giù.
Davvero
Carlo Bononi era il cantore della verità, oltre che dell'emozione.
Tutto
questo era ben chiaro agli occhi dei suoi contemporanei.
Il
'divino' pittore Guido Reni, a pochi mesi di distanza dalla morte di
Carlo, avvenuta nel 1632, si rifiutava di completare un dipinto di
Carlo Bononi per il rispetto che aveva della sua grande arte, e lo
esaltava descrivendolo “pittore non ordinario” dal “fare grande
e primario”, dotato di “una sapienza grande nel disegno e nella
forza del colorito”.
Girolamo
Baruffaldi scrisse che quando il famoso Guercino veniva a Ferrara,
non perdeva occasione di andare a Santa Maria in Vado per
“contemplare” i dipinti di Bononi e dimostrava una così grande
ammirazione che non riusciva più ad andarsene via. E quando poi se
ne doveva andare, Guercino mostrava “lacrime di giubilo agli
occhi”.
Tito
Prisciani, priore di Santa Maria in Vado e committente di Bononi,
descrisse il modo di dipingere di Carlo Bononi a un altro cliente
dell’artista, il reggiano Sebastiano Munarini. Indirizzando a
quest’ultimo una lettera il 4 novembre 1622 nella quale si
complimentava della buona riuscita della Resurrezione di Cristo che
Bononi aveva realizzato, Prisciani affermò che «il signor Carlo
merita di essere stimato, perché li colori che lui adopera sono
fatti di core liquefatto».
Questa
efficace metafora 'i colori che lui adopera sono fatti di cuore
liquefatto' descrive molto bene la
pittura di Bononi, evidenziandone le qualità empatiche, partecipate
ed emozionali. Il giudizio di Tito Prisciani è espresso a ragion
veduta, avendo appena commissionato all’artista le grandiose
decorazioni della tribuna della propria chiesa con scene tratte dalla
vita della Vergine e da quella di Cristo, ma soprattutto motivato
dalla quotidiana conoscenza della prima fase dei lavori compiuti da
Carlo Bononi in Santa Maria in Vado: i teleri dei soffitti della
navata del transetto e, soprattutto, la avvolgente decorazione del
catino absidale.
Mi
riconoscerete
Carlo
Bononi, il mio creatore, era insomma un pittore tutto votato a
mostrare la verità del reale e la fede nel sacro, un pittore capace
di suscitare emozioni forti e sincere, e di creare empatia tra i
personaggi dipinti e lo spettatore.
La
Mostra di Palazzo dei Diamanti 'Carlo Bononi. L'ultimo sognatore
dell'Officina ferrarese' è la prima dedicata tutta a lui.
Era
ora, dico io: ne sono davvero felice!
Mi
riconoscerete, nei dipinti che troverete in Mostra.
Carlo
Bononi, il mio creatore, mi disegnava spesso nelle sue opere: era il
suo modo per rendermi partecipe di tutto l'impegno, la sapienza,
l'emozione che metteva nei suoi dipinti. Sapeva che tutto questo non
sarebbe andato perduto: l'avrebbe conservato ogni sua opera. L'avrei
conservato io. Così come ho conservato la memoria degli oggetti che
per lui erano legati a un ricordo prezioso, come questa collana, come
questa moneta.
Carlo
Bononi, il mio creatore, mi ha voluto dipingere a diverse età, ma
sono sempre io: io che mi affaccio da una nuvola, io che sto in primo
piano o sullo sfondo.
Sono
sempre io.
Mi riconoscerete.
L’eredità
Volavano
insieme sui cieli di Ferrara.
L’angelo
come sempre teneva per mano il vecchio pittore.
“Torniamo
indietro, vuoi?” chiese Bononi.
L’angelo
annuì. Osservò Carlo: gli sembrava improvvisamente triste.
Si
diressero volando verso casa.
“Puoi
lasciarmi la mano ora, Genio delle Arti – sorrise Carlo – credo
di aver capito come volare da solo”.
L’angelo
non disse nulla, ma allentò la presa della mano. Finché lo lasciò.
Il
vecchio pittore volava da solo, accanto a lui.
“Credo
di aver capito, sai? – riprese dopo aver volato ancora un po’ in
silenzio – Penso di dover andare...”.
“Sei
sicuro?” chiese l’angelo cercando di nascondere le lacrime.
Carlo
sorrise: “In fondo, penso di essere pronto”.
“Mi
dispiace che tu debba andare” disse l’angelo dopo un po’.
“Non ti
devi preoccupare”.
“Ma io
ti voglio bene” disse l’angelo, e frullò le ali.
“Anch’io!”.
“E poi
non ti posso seguire... come farò qui, su queste tele, senza di
te?”.
“Ho
capito perché sei venuto a trovarmi, Genio delle Arti! – disse
Carlo – Non sei venuto per portarmi via, ma per accompagnarmi e poi
restare, vero?”.
L’angelo
guardò l’orizzonte davanti a loro: “Ora che ho visto con i miei
occhi, mi aspetta il compito di far conoscere tutta la bellezza,
l'emozione, la verità... l'amore, la fiducia, la speranza... tutto
quello che hai saputo dipingere... te lo prometto: nulla di quel che
hai fatto andrà perduto!”.
“Allora
posso andare via tranquillo – sorrise Bononi – La gente magari ti
confonderà con gli altri angeli, per me invece sarai sempre
speciale. Sarai la mia speranza, Genio delle Arti. Come un
figlio...”.