2. Le voci dei tamtam, i colori dei
bambini–racconto: le fiabe dall'Africa1
Un giorno Topolina decise di tessere dei bambini–racconto di tutto quello che aveva visto, e vestì ciascuno di loro con un vestito di un colore diverso: bianco, rosso, azzurro o nero.
I racconti diventarono i suoi figli
e vissero nella sua casa e le fecero sempre compagnia. Così fu
finalmente felice, perché Topolina non aveva figli suoi’.
Sì, succede proprio così.
L’autore di racconti è curioso, si
infila dappertutto, visita le stanze dei tesori, spia di notte il
nascere delle cose segrete e, dopo aver osservato, comincia a tessere
i bambini–racconto nella propria mente.
E deve succedere proprio così: i
racconti vanno tessuti piano piano.
Spesso invece c’è chi si butta a
scrivere quando nella mente c’è appena un seme, l’ispirazione
iniziale, un filo sottile, una scintilla che brilla in modo
straordinario, è vero, ma che non è ancora la storia. Quello che
prenderà forma così di fretta difficilmente sarà un buon racconto.
I racconti, come fa Topolina, vanno
invece tessuti, e l’autore li tesse piano piano, con pazienza e con
amore, perché sono suoi figli.
Sono figli che hanno sempre fame, è
nella loro natura: hanno tanta voglia di crescere. Il loro cibo è la
fantasia e l’invenzione. Così fioriscono, e diventano una
ricchezza, offerta a chi c’è adesso, a chi verrà dopo.
I bambini–racconto fioriscono
diversi l’uno dall’altro, come i bambini–veri, diversi
nella forma, nel carattere, nel tono della voce.
Li si può vestire ciascuno con un
colore diverso, e chi non ci crede dia un’occhiata alle
illustrazioni nelle pagine che seguono.
Questa breve fiaba proviene dal popolo
Ekoi del Camerun: dimostra una straordinaria consapevolezza delle
dinamiche dell’invenzione narrativa, e riesce a raccontarle con
raffinata maestria e sottile poesia attraverso un gioco immaginativo
e simbolico che denota un’altissima maturità culturale e una forte
padronanza tecnica.
Eppure esiste un pregiudizio che in
occidente considera i racconti tradizionali africani, e la cultura
africana in generale, come ‘qualcosa di primitivo’.
‘Primitivo’ è un aggettivo che
proviene dall’evoluzionismo, ma che al giorno d’oggi ha assunto
una carica emotiva che va oltre il suo significato: è come si
dicesse, con vago tono dispregiativo, ‘sai, è una cultura così
semplice!’.
Il concetto di ‘cultura primitiva’
applicato all’Africa, in realtà, è stato superato nel momento in
cui gli antropologi si sono calati a studiare queste popolazioni
vivendo in mezzo a loro, raccogliendo direttamente i loro racconti,
toccando così con mano culture tutt’altro che ‘semplici’.
È un pregiudizio, questo, che nasce
dal fatto che in Europa per diversi motivi non si conosce quasi nulla
della storia dell’Africa e della sua eredità culturale.
Eppure il valore artistico della
narrativa tradizionale d’Africa è, sotto molti aspetti, pienamente
paragonabile alla qualità dei nostri racconti popolari.
Si tratta di vera arte, spesso segnata
da un elevato grado di artificio e di formalismo, a volte con tratti
di consapevolezza ironica straordinaria.
Certo, c’è una differenza
sostanziale, ma è una differenza che si pone ad un livello diverso
rispetto ad una valutazione di maggiore o minore ‘semplicità’: a
differenza della nostra, la tradizione narrativa africana è infatti
unicamente orale. Le fiabe, i miti, i racconti africani sono arrivati
ai giorni nostri esclusivamente attraverso l’oralità, essendo le
prime trascrizioni relativamente recenti. E i canoni che creano
fascino in una storia raccontata oralmente sono sempre molto diversi
da quelli usati per una storia scritta; colui che la raccoglie e la
trascrive deve dunque avere le competenze, l’esperienza, la
sensibilità non solo per tradurre la lingua, ma anche, per quanto
possibile, i codici e le convenzioni narrative.
In ogni caso si tratta di differenti
linguaggi artistici e, se la necessità di divulgazione di un
racconto orale richiede la sua trascrizione scritta, sarà comunque
impossibile alla fine riuscire a restituire appieno i gesti del
narratore, le impennate di voce, le battute di dialogo con il
pubblico, la dimensione collettiva in cui si è manifestato.
Ecco: nei racconti della tradizione
africana questi aspetti legati al narrare a viva voce appaiono molto
accentuati, forse più che in altre tradizioni, e la pagina stampata
spesso sembra avere per loro spazi troppo ristretti.
Quando alla sera il narratore racconta
– sia esso il griot cantastorie africano, o un vecchio
autorevole, o il capo del clan, o una donna del villaggio – ecco
che la fiaba diventa spettacolo. Il narratore fa sfoggio di tutta la
sua arte per affascinare e toccare l’anima del pubblico:
l’intonazione della voce viene modulata a seconda delle necessità
narrative, la trama viene arricchita a seconda della reazione
dell’uditorio, la gestualità è istrionica; per tenere avvinto il
pubblico, il narratore ricorre spesso al canto e al dialogo,
invitando i presenti ad esplicitare l’insegnamento contenuto nella
storia, a dare giudizi sui personaggi, a sciogliere una questione che
il protagonista non sa sbrogliare o a risolvere un indovinello. A
volte interrompe il racconto intonando il ritornello del tema
dominante della storia, e tutti lo riprendono cantando in coro;
spesso il tamburo sottolinea il ruolo dei personaggi e scandisce i
diversi momenti narrativi.
Nel cominciare la storia, il narratore
ogni volta delimita con apposite frasi di apertura e di chiusura lo
spazio magico del racconto. Possono essere frasi brevi – come il
nostro ‘C’era una volta...’ o come il misterioso termine Tuareg
‘Amashahu!’ – oppure vere e proprie formule.
L’uso di una frase di apertura
sospende all’improvviso il tempo, e lo fa scorrere nell’animo di
chi ascolta: fa vivere in lui il tempo dell’intero popolo o,
meglio, della sua memoria. Il tempo narrativo viene così collocato,
insieme al tempo presente, nel lontano tempo del mito, là dove gli
antenati hanno saputo discernere ciò che conta per la vita e la
felicità, hanno scoperto i valori fondanti e saputo costruire la
saggezza, hanno fissato le regole sociali. Affidare l’evento
narrativo al tempo del mito significa così mantenere la
comunicazione tra generazioni, assegnando agli antichi il ruolo di
depositari dei valori e del patrimonio collettivo che fondano
l’identità culturale di quel popolo.
La narrazione della fiaba, dunque, non è semplice
intrattenimento, ma ha una funzione di identificazione e di
appartenenza sociale, di trasmissione di valori, di istruzione
(divertente), di educazione dei più giovani.
Certo, esistono molti generi di
racconti nella tradizione africana, e molti sono i temi, anche a
seconda del contesto geografico in cui nascono.
Una distinzione che in genere viene
fatta riguarda il Nord Africa al di sopra della fascia del deserto
del Sahara, partecipe della grande circolazione fiabistica
indiano-islamico-europea, e la cosiddetta Africa Nera che invece ne
appare più estranea, con elementi narrativi maggiormente autonomi.
In generale, la letteratura popolare dell’Africa Nera costituisce
sorprendentemente un’unica entità: fatto, questo, che non si
potrebbe dire per nessun altro territorio di tali dimensioni. Le
somiglianze riguardano i tipi di intreccio, i contenuti, i personaggi
ricorrenti, gli espedienti letterari... è raro, ad esempio, trovare
un’altra tradizione in cui l’uomo appaia così ancorato alla
terra in modo altrettanto forte e indissolubile: da essa l’uomo
dipende in modo totale fintanto che gli procura cibo e sicurezza, e
la sua vita, in questo, è accomunata alla vita degli animali.
E proprio gli animali sono i personaggi
principali delle fiabe d’Africa sebbene, anche quando la scena del racconto appartiene tutta a loro,
il protagonista rimanga sempre l’uomo. Il primo elemento che emerge
leggendo una fiaba africana è infatti che agli animali vengono dati
attributi umani – gli animali lavorano, si sposano, vivono nelle
capanne, sono capaci di sentire, parlare, pensare come gli uomini –
e che spesso gli animali comunicano con l’uomo da pari a pari. Ogni
animale è antropomorfizzato e porta un nome proprio, conserva il
proprio carattere naturale assumendo allo stesso tempo un preciso
ruolo fisso nella società animale che diviene specchio di quella
umana. Le storie con protagonisti animali presentano così una
duplice prospettiva: da una parte ci si propone di spiegare
caratteristiche ed abitudini dell’animale, dall’altra di spiegare
i vizi dell’uomo attraverso i comportamenti animali, con lo scopo
di fornire una lezione morale o di ironizzare su alcune abitudini
tipicamente umane.
Ecco allora che la lepre e la rana sono
l’immagine dell’uomo debole e povero – ma intelligente e
coraggioso –che riesce a difendersi dai prepotenti; il leone e il
leopardo, temuti per la loro forza, diventano figura dell’oppressore
arrogante che, confidando troppo nelle proprie forze, finisce per
diventare stupido e farsi giocare dai più piccoli – ma più
ingegnosi – di lui; la iena è solitamente l’animale sciocco,
simbolo dell’uomo egoista e subdolo.
Le fiabe così, raccontando degli
animali, trasmettono una concezione della vita, parlano dei piccoli,
degli oppressi, dicono l’ingiustizia, la prepotenza, il coraggio,
l’amore, la generosità: ché raccontare non significa limitarsi ad
accumulare aneddoti più o meno curiosi...
E tutto avviene ancora oggi attraverso
gli antichi tempi del raccontare e dell’ascoltare, sebbene in
alcune zone d’Africa, specie nelle grandi città, le modalità
delle narrazioni collettive comincino a competere con un nuovo
sistema di intrattenimento che viene da lontano e che si impone con
forza nelle case.
Nella nostra cultura occidentale
l’incontro tra la modernità massmediatica e il racconto è
avvenuto da tempo, e sembra aver messo in crisi quest’ultimo. In
confronto alla cultura africana è come se ci fossimo da tempo
privati di una facoltà che sembrava inalienabile: la capacità di
scambiare esperienze. Come scriveva Calvino: ‘Mi sembra che ormai
al mondo esistano solo storie che restano in sospeso e si perdono per
la strada’. Dare valore alla narrazione significa invece tornare
alla ricostruzione paziente della coscienza storica, alla
comunicazione interpersonale di esperienze significative, all’ascolto
dell’altro; per promuovere una reale identità narrante, slegando
dal produttivismo economico il valore delle persone e delle
esperienze.
E in tutto questo, per gli africani,
per Topolina, come per noi occidentali, si tratta in fondo di saper
dare voce all’universale profondo desiderio di narrare: tessere
innanzitutto delle belle storie, divertenti o terrificanti che siano,
e farle lievitare dal gusto del racconto, dalla volontà di
comunicare sé stessi ad un altra persona, avvicinando così identità
diverse.
L’Africa ha spesso subito tragiche
umiliazioni nelle sue vicende millenarie, così come sta accadendo di questi tempi, e sono convinto che una
delle umiliazioni più pesanti che sta subendo ora il popolo africano
sia l’indifferenza verso la sua storia, la sua cultura, la sua
eredità: la negazione della sua identità culturale, il cui
riconoscimento, invece, è condizione per ogni dialogo.
Le fiabe, in questo, sono un potente
antidoto.
Siano benvenuti, allora,
tutti i bambini–racconto.
Filastrocca
dei racconti bambini2
di Luigi
Dal Cin
Topolina, che è curiosa,
sa infilarsi dappertutto,
nelle tristi catapecchie e
nei palazzi dei più ricchi,
coi suoi occhi rilucenti
sa raccogliere ogni frutto:
dalle lacrime del povero,
a diamanti di sceicchi.
Topolina spia di notte coi
suoi occhi luccicanti
i segreti più segreti che
nel buio stan nascendo,
e lei sola sa seguire quei
percorsi serpeggianti
che la portano alle stanze
del tesoro più stupendo.
Quando ha smesso di
osservare coi suoi occhi piccolini
Topolina torna a casa e ha
molte storie nella mente,
così inventa i suoi
racconti che diventano bambini:
con amore se li tesse, se
li intreccia lentamente.
Poi li veste, i suoi
bambini, con vestiti colorati:
con il bianco vestirà il
suo racconto più radioso,
con l’azzurro coprirà
tutti i sogni suoi sognati,
e ogni storia diverrà,
così, un figlio capriccioso.
I racconti son suoi figli,
e Topolina ora è contenta
perché vivono con lei e
le fanno compagnia.
Non aveva figli suoi, e
non pensiate che vi menta:
Topolina ora ha dei figli
che son nati per magia.
1 tratto
da Luigi Dal Cin, Le voci dei tamtam, i colori dei
bambini–racconto, saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le
Immagini della Fantasia – 24a Mostra Internazionale
d’Illustrazione per l’Infanzia’, ottobre 2006
2 tratto
da Luigi Dal Cin, Wiligelma Cook, La Scuola Editrice, 2012