7. Il grande albero delle rinascite:
le fiabe dalle terre d’India
Quello che gli antropologi definiscono
come ‘Subcontinente indiano’ è una vasta area che raccoglie
territori accomunati dalle medesime radici storico–culturali: le
sterminate regioni dell’India, ma anche lo Sri Lanka, il Nepal, il
Bhutan, il Bangladesh e il Pakistan.
In questo esteso territorio circolano
da millenni gli stessi antichissimi miti, le medesime leggende,
parabole, fiabe, favole, epopee, aneddoti, racconti… le terre
d’India sono ricchissime di un’immensa varietà di storie:
celebrazioni di una fede nella sconfinata varietà dell’universo,
nel simultaneo verificarsi di tutto, nella coesistenza di tutte le
possibilità senza che esse si debbano escludere a vicenda. Così le
storie si intersecano, in India, si sovrappongono in tutte le loro
forme. Si ripetono in versioni brevi e lunghe. E quando sono lunghe,
lo sono davvero, tanto che per raccontarle occorrono giorni. Giorni e
notti. E quando infine le raccogliamo per metterle insieme, formano
una distesa smisurata come l’Oceano dei Fiumi dei Racconti
di Somadeva.
Si sosteneva, già in epoca romantica,
che l’India fosse la madre di tutta la nostra letteratura. Oggi, di
sicuro sappiamo che alcuni testi, come le favole e le fiabe, grazie
alla loro brevità e semplicità, grazie all’universalità del loro
messaggio, dall’India, dove sono nate, hanno viaggiato facilmente
fino all’Occidente. Certo, la strada le ha trasformate: si sono
mascherate e hanno assunto le apparenze del paese che le ha accolte.
Le fonti
antiche
È necessario a questo punto
comprendere le fonti in cui tutte le storie indiane affondano le loro
radici. Le fonti maggiori dei racconti mitici dell’Induismo sono
costituite da testi composti in sanscrito, lingua indoeuropea parente
stretta del greco e del latino. La fonte più antica – in realtà,
il più antico documento d’una lingua indoeuropea – è il Rgveda,
raccolta di più di mille inni destinati ad accompagnare i sacrifici
per le divinità e trasmessi oralmente per diversi secoli prima
d’essere messi per iscritto attorno al 1200 a.C. I testi successivi
sono i Brahmana (900–700 a.C.), trattati sacerdotali ricchi
di dettagli che fanno riferimento alla mitologia per spiegare i riti.
Un corpus di nuovi racconti viene introdotto nel Mahabharata
(300 a.C.–300 d.C.), la grande epopea dell’India che consta di
oltre centomila strofe: dieci volte l’Iliade e l’Odissea messe
insieme. In India si dice: “Quel che non c’è nel Mahabharata,
non esiste da nessun’altra parte”.
Il Ramayana (200 a.C.–200
d.C.), l’altra grande epopea in lingua sanscrita, è di gran lunga
più omogeneo del Mahabharata, più breve e più sofisticato
nello stile letterario: consta di sette libri, il nucleo del poema è
la narrazione delle avventure di Rama, ma i libri primo e settimo
includono molte altre importanti narrazioni mitiche. Le fonti di gran
lunga più estese per la mitologia dell’Induismo sono però i
diciotto ‘grandi’ Purana e i numerosi Purana ‘minori’,
vere enciclopedie del pensiero indiano, riletture induiste dei più
antichi racconti mitici.
Amore, passione, rivalità, odio,
tradimento, fedeltà, rinuncia, orgoglio, santità, eroismo,
pazienza, temerarietà, eccesso e generosità dominano queste epopee
dove gli uomini, nella loro saggezza e nella loro follia, si
confrontano con il divenire del mondo. Gli dei e i demoni si
mescolano ai mortali, generano dei figli dai poteri superumani,
proteggono i loro devoti e li iniziano all’uso di armi terrificanti
che possono annientare l’universo in un istante. Il meraviglioso si
mescola al quotidiano. Un brahmano si trasforma in gazzella per
soddisfare i propri desideri; una scimmia si muta in monaco errante
per condurre la propria ricerca interiore; con un salto il dio
Hanuman, comandante delle armate delle scimmie, sfiorando il sole che
non lo brucia, supera l’oceano e atterra in Sri Lanka; gli alberi
si trasformano in clave nelle mani degli eroi, le cui gesta sono
degne degli effetti speciali del cinema contemporaneo.
Affacciarsi all’enorme ricchezza di
questi testi antichissimi è come sporgersi su un paesaggio di
straordinaria profondità, varietà e bellezza: una vertigine
ammaliante.
Il
Panchatantra:
la favola in India e la favola in Europa
I termini ‘favola’ e ‘fiaba’,
sebbene a volte siano impropriamente utilizzati in modo indistinto,
non sono affatto sinonimi e si riferiscono a generi letterari
differenti. La favola è un racconto breve che ha come protagonisti
per lo più degli animali che personificano i comportamenti – sia
le virtù che i vizi – dell’uomo, e in cui la morale è
esplicita.
Benché fissate molto tardi nelle forme
che noi conosciamo, le favole indiane sembrano tanto antiche quanto
le favole di Esopo. Senza entrare nel problema dei rapporti tra le
due tradizioni, dobbiamo riconoscere quanto il genere fosse più
affine alla cultura indiana che a quella greca, se consideriamo i
tratti generali costituiti da una combinazione di intenti edificanti
e di divertimento, l’alternanza di versi e prosa, e l’idea stessa
di mettere in scena animali dotati di sentimenti umani. L’India non
conosce infatti la distinzione, così come la applichiamo noi
occidentali, tra uomini e animali: la credenza nella trasmigrazione
dell’anima spiega l’eterno interscambio tra i due regni. È vero
che tutte le popolazioni più antiche – non solo quelle indiane –
hanno sperimentato, nei racconti, una commistione tra uomini e altri
esseri del creato, ma mentre il progresso nella cultura occidentale
portava l’uomo e gli animali ad una netta separazione, per gli
indiani essi si avvicinavano sempre più, proprio per la dottrina
della metempsicosi che domina ancora oggi il pensiero induista.
Le favole indiane più antiche sono già
presenti nel Mahabharata tra le molteplici storie che
contiene. E così mentre Yudhisthira, uno dei cinque fratelli
Pandava, eroi del Mahabharata, si chiede quale comportamento
debba adottare un sovrano povero di risorse, viene introdotto un
dialogo tra il Gange e l’Oceano che rispecchia esattamente la
favola dell’ulivo e della canna in Esopo:
“Caro sposo Oceano – disse la
dea Gange – gli alberi si innalzano superbi nella loro posizione, e
quando viene la mia piena si oppongono presuntuosi alla corrente: è
proprio per questa loro resistenza che devono poi abbandonare la
propria sede. La canna invece, se vede avvicinarsi la piena, la sa
accogliere, e accetta di piegarsi. Così, quando la piena è passata,
eccola di nuovo salda al suo posto. La canna sa riconoscere il tempo
giusto, non è mai superba, sa accettare anche gli eventi negativi,
non dispera mai e conosce l’umiltà. Ecco perché non viene
trascinata via”.
Ma è il successivo Panchatantra
a rappresentare, senza dubbio, una delle raccolte di favole più
famose, sia nel suo paese di origine che altrove. Messo per iscritto
ad una data incerta, tra il I e il VI secolo d.C., il libro aveva lo
scopo di iniziare i giovani principi all’esercizio del potere.
L’introduzione narra di un re che aveva tre figli svogliati e
indolenti. Di fronte alla sua preoccupazione, un consigliere gli
raccomandò di rivolgersi ad un saggio brahmano. Quest’ultimo,
Vishnusharma chiamato anche Pilpay, accettando la missione che gli
stava affidando il re, affermò che giorno dopo giorno, in capo a sei
mesi, i tre figli sarebbero divenuti ‘uomini senza pari nella
scienza del governo’. Così compose proprio per loro il
Panchatantra, il cui metodo – istruire divertendo attraverso
un’affascinante sequenza di favole sulle diverse filosofie della
vita – diede ottimi frutti.
Anche se le storie sono inserite le une
nelle altre, ogni favola può essere letta indipendentemente: questo
fattore contribuì al loro successo e alla facilità con cui hanno
circolato. Ecco così che le favole indiane sono arrivate fino a noi
dopo aver percorso un lungo cammino. Dall’India, ad esempio, il
Panchatantra ha raggiunto la Persia dove, nel VI sec., un re
sassanide lo fece tradurre in pahlavi facendovi aggiungere altre
storie provenienti dal Mahabharata. Questa versione, oggi
perduta, servì da base alla traduzione araba di Ibn al–Muqaffa.
All’inizio della raccolta indiana, un ruolo importante viene
assegnato a due sciacalli, Karakala e Damanaka. I loro nomi, in arabo
Kalila e Dimna, divennero il titolo di un’opera ancora diversa, ma
che sempre si riferiva ai modelli indiani. La raccolta di Ibn
al–Muqaffa poi fu tradotta molte volte, di sicuro in aramaico e in
greco. Tra il 1263 e il 1273 Jean de Capoue ne propose una versione
latina in Liber Kalilae et Dimnae o Directorium
vitae humanae che fu poi trasposta in tedesco, spagnolo e
francese. Parallelamente, l’opera araba tradotta in persiano
divenne Il Libro dei Saggi o La Condotta dei Re che arrivò in
Francia con il titolo di Fables de Pilpay, che ci conduce
diritti a La Fontaine. Quest’ultimo non esitò a riconoscere il suo
debito nei confronti dei predecessori indiani: “Dirò per
riconoscenza che devo gran parte del mio lavoro a Pilpay, saggio
indiano”, scrisse nella prefazione del suo settimo libro di favole.
Non a caso Vishnusharma–Pilpay viene comunemente chiamato anche
‘Padre delle favole dell’Occidente’.
Il rapporto tra la favola indiana e
quella europea rappresenta solo uno dei numerosi tasselli letterari
che legano la cultura dell’Europa e quella dell’India.
Per secoli l’aggettivo ‘misterioso’
utilizzato riferendosi all’India dai viaggiatori europei ha
espresso invece, il più delle volte, un approccio superficiale, un
alibi per non avventurarsi davvero nelle profondità della millenaria
cultura indiana. Per contro, proprio gli europei, traducendo con
passione nell’800 gli antichi testi scritti in sanscrito – lingua
appannaggio della sola casta brahmanica – hanno consentito la
diffusione della cultura indiana tra gli indiani stessi.
Le fiabe
indiane: i temi e i personaggi
La fiaba, a differenza
della favola, è invece un racconto popolare di meraviglie, dove
l’elemento fantastico e soprannaturale non è vissuto come
straordinario, ma viene presentato come normale e abituale. Nella
fiaba la dimensione naturale e terrena s’intreccia continuamente
con la dimensione soprannaturale e magica. Ma più che nei contenuti
meravigliosi, la forza della fiaba risiede nel suo intento profondo:
a differenza della favola che ha un intento prettamente morale, il
proposito davvero meraviglioso della fiaba è quello di annunciare
che una vita piena è alla portata di ciascuno nonostante le
avversità e le condizioni iniziali sfavorevoli, a patto che si
affrontino quelle rischiose lotte senza le quali non si può
raggiungere la propria vera identità.
Il grande albero delle
fiabe indiane affonda così le sue lunghe radici nella millenaria tradizione orale
(che ha trovato poi forma scritta nelle fonti antiche già
menzionate, nelle numerose raccolte di racconti Brahmanici e Jaina,
prevalentemente in sanscrito, o nelle raccolte di racconti composti
nelle antiche lingue medio–indoarie dalle quali deriva, ad esempio,
una delle primissime forme delle Mille e una notte) un
groviglio di saperi di sorprendente antichità che si è saputo
continuamente rinnovare in nuovi germogli narrativi: proprio come fa
il Banyan, detto anche ‘albero della conoscenza’, simbolo della
trasformazione e del tempo perché si sa rigenerare attraverso i
propri stessi rami che, con il tempo, si piegano verso il terreno e
diventano poi radici di nuovi virgulti. Le storie partono dalla
tradizione orale per ritornare poi a nutrirla; rimbalzano tra i
manoscritti sanscriti e i cantastorie di villaggio, e ciascuno
aggiunge qualcosa di nuovo. Come il Banyan, la radice orale esce dal
terreno e produce rami scritti, ma questi poi continuano a crescere
affondando di nuovo nella terra, e danno vita a nuove radici e a
nuovi tronchi, a nuove oralità.
Al di là dei facili
stereotipi occidentali, ecco allora l’India in cui si rivela
l’umanità del divino e la capacità dell’uomo di trascendere i
propri limiti, ecco asceti cosparsi di cenere, maharaja barbuti e
fieri, aggraziate danzatrici, astuti mercanti, fruscii di seta,
tessuti d’indaco e amaranto, giallo zafferano e piume di pavone,
che si muovono in ambienti multiformi: città dedalo, risaie
smeraldo, palazzi di arenaria rosa che risuonano del tintinnio delle
cavigliere, bazar dai profumi speziati, ma anche picchi innevati,
deserti desolati, fiumi sacri, foreste rigogliose abitate da animali
dal pensiero sottile. Una straripante umanità tutta in movimento,
con le radici nel Gange e il cuore sulle vette Himalayane.
E accanto ai fasti e alle
glorie delle corti, presenti nei racconti delle caste più alte,
compaiono una varietà di elementi che si condensano in alcune
categorie tradizionali appartenenti alle caste più basse quali, ad
esempio: le differenze tra uomo e donna, sia essa la sposa virtuosa
che si immola sulla pira del marito defunto, sia essa la donna
comune, assai concreta; i vari tipi umani, dall’avaro allo stolto,
dal gradasso allo scaltro, dal figlio dissennato senza un briciolo di
cervello al burlone o all’astuto che trionfano sulle difficoltà
della vita; le sofferenze che accomunano tutti gli uomini, con demoni
e dei che perseguitano i poveri mortali senza dare loro tregua...
Le divisioni di casta,
tanto fondamentali nella società indiana, portano a trasferire nelle
fiabe i tabù, le rivalità, i conflitti e i codici comportamentali
della realtà, con la possibilità, però, di scegliersi un lieto
fine che veda vincitrice la casta all’interno della quale si
tramanda la fiaba.
Animali quali cobra,
serpenti, aquile, scimmie, lucertole, sciacalli, tigri ed elefanti
occupano di sovente, nei racconti, ruoli di rilevo.
Le fiabe indiane, poi,
riportano spesso reminescenze classiche che offrono un vitale
campionario di affascinanti personaggi come i naga, creature
in parte umane e in parte serpenti; i kimpurusha, abitanti
delle montagne con il corpo umano e la testa di cavallo; i kinnara,
esseri così singolari che il loro nome è una forma interrogativa
che significa letteralmente: ‘Chi è questo, un uomo?’; i
rakshasa, spaventosi demoni che portano malattie terribili
come la peste, divorano gli uomini e desiderano le loro donne; i
vidyadhara, esseri soprannaturali abitanti sull’Himalaya,
possessori di poteri magici; i valakhilia, mitici nani alti un
pollice che cantano inni vedici; le asparas, bellissime ninfe
celesti divenute fate nella tradizione popolare e simili, per alcune
connotazioni, alle fanciulle cigno delle saghe scandinave:
somiglianze che rimandano ad un antichissimo fondo comune fiabesco
indoeuropeo.
E
sopra tutto: la parola
E sopra tutto
l’importanza e la potenza della parola pronunciata che in India si
incarna addirittura in una divinità: Vac, il discorso, che in
quanto inno – preghiera o formula magica – può indurre gli dei a
concedere doni, e in quanto maledizione, soprattutto per bocca di un
brahmano, conduce alla rovina sicura. Sono parimenti divinità in
sembianze umane alcuni incantesimi, in particolare i vidya (i
saperi) della letteratura Jaina, immaginati come dee col cui possesso
si diventa esseri divini, vidyadara ovvero ‘portatori di
saggezza’ dotati di capacità sovrannaturali.
In India la parola è
efficace.
In India, ad esempio, le
formule di benedizione e di maledizione non si sono scolorite, come
in Europa, trasformandosi in semplici espressioni di cortesia o di
sdegno. Hanno invece un effetto magico. Nessuno di noi immagina
niente del genere quando augura ‘Salute!’ a chi ha appena
starnutito. L’indiano che, nella medesima circostanza, esclama
‘Jiva!’ (Che tu viva!) è sicuro di impedire al soffio vitale di
sfuggire dal naso di colui che starnutisce.
Una parola pronunciata
che però, in India, non è immobile, per sempre definita, o che
esclude il cambiamento, ma una parola che sa sempre accogliere ogni
nuova varietà per comprenderla in sé. Una parola che, come già
detto, sa celebrare una fede nella coesistenza di tutte le
possibilità senza che esse si debbano per forza escludere a vicenda.
Una parola il cui significato sa rinascere ogni volta che viene
pronunciata.
Ecco allora l’importanza
del racconto orale grazie al quale le storie rinascono e si
trasformano passando di padre in figlio, di villaggio in villaggio,
attraverso un tempo ciclico fatto di avvenimenti che si ripetono,
apparentemente diversi, ma fondamentalmente uguali. E la fluidità
della tradizione indiana, sia orale che scritta, è soltanto uno
degli aspetti della più generale fluidità dell’atteggiamento
indiano verso tutti i tipi di verità. Il cantastorie può recitare
un mito in un certo modo, per essere poi interrotto da qualcuno fra
il pubblico che, ascoltando il racconto, dice: “Noi l’abbiamo
sentito diversamente”. E quando viene narrata la seconda versione,
il cantastorie risponde: “Anche questa è vera, ma la tua versione
è accaduta in una diversa era cosmica”, a significare che lo
stesso evento si può ripetere più e più volte, ogni volta in modo
leggermente diverso. E questo garantisce alle storie raccontate la
possibilità di sopravvivere ai cicli cosmici, noncuranti del fatto
che le pagine delle loro versioni scritte siano divorate dalle
formiche o marciscano al caldo umido del monsone.
La trasformazione
dell’universo viene così assecondata, e l’immaginazione
dell’uomo viene fatta salva, perché ricrei ogni volta da sé
l’ordine del mondo, in una nuova storia da raccontare.
È così
che, dietro un’India, ecco che ne appare un’altra, e poi un’altra
ancora: alla ricerca di un’essenza che è l’identità tra l’unità
e la molteplicità, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente
piccolo, tra l’albero e il seme, tra l’universo e l’uomo.