4. I canti dei ghiacci: le fiabe
dalle Regioni Artiche1
“Hai mai sentito come cantano i ghiacci? –
chiese la nonna – I ghiacci cantano, tesoro, cantano di continuo
nelle lunghe notti nordiche. E sai perché? È il Grande Vecchio
dall’aspetto di tricheco che si volta e si rivolta nel suo
giaciglio millenario, e così il ghiaccio canta, scricchiola di
continuo. Da questo canto la nostra gente sa che il Grande Vecchio è
vivo. È lui che ci manda i banchi di aringhe e fa risalire i fiumi
al salmone. Ed è lui che ci manda le foche e le grasse balene. Poi
fa scendere sulla terra la notte perché tutti possano riposare:
l’uomo, gli animali e i pesci sotto i ghiacci. Ma per non farci
perdere la speranza che poi tornerà la luce, nella notte ci manda
l’aurora boreale: la luce colorata che danza nel cielo”.2
I ghiacci cantano. Così raccontano i Lapponi nelle lunghe notti polari. E già affiorano tra le righe, come punte di immensi iceberg, alcuni elementi caratteristici delle fiabe delle regioni artiche. I ghiacci e i canti. Il Grande Vecchio dall’aspetto di tricheco, l’uomo, gli animali.
Ma innanzitutto: cosa si intende per
‘regioni artiche’? Artico è una parola greca che significa,
semplicemente, settentrione. E sappiamo che in cima al settentrione
del mondo c’è il Mare Glaciale, ricoperto di ghiacci, circondato
da un circolo di terre con due sole aperture: lo Stretto di Bering
che lo mette in contatto con l’Oceano Pacifico, e il più vasto
passaggio tra Groenlandia, Islanda e Norvegia che lo mescola
all’Oceano Atlantico. D’accordo: questo a nord... ma con quale
criterio si traccia un limite artico a sud? Il più semplice lo fa
coincidere con il Circolo Polare Artico: le regioni artiche sarebbero
quindi tutte quelle che si trovano al di sopra del 66° grado e ½ di
latitudine nord, ovvero tutte quelle dove nel solstizio d’estate il
sole non tramonta, e nel solstizio d’inverno il sole non sorge. Si
tratta di una peculiarità che certamente caratterizza la vita
artica, e che di sicuro colpisce il nostro immaginario. Il difetto di
questo criterio è che non considera condizioni climatiche e
geografiche locali, per cui include, ad esempio, territori il cui
clima è fortemente mitigato dalla Corrente del Golfo. Il criterio
più appropriato è invece quello che traccia una linea immaginaria
che unisce le terre dove la temperatura media del mese di luglio non
supera i 10° Centigradi (50° F), la stessa linea che segna il
limite settentrionale delle foreste e quindi l’inizio della tundra,
classificando così come artiche regioni simili per condizioni
estreme di clima e meteorologia, e con simili caratteristiche di vita
animale e vegetale.
E proprio le medesime rigide condizioni
ambientali hanno contribuito a forgiare popolazioni con abitudini ed
espressioni culturali molto simili. Una distinzione, volendo, può
essere fatta tra gli abitanti delle regioni artiche che vanno dalla
Groenlandia alla Ciukotka (l’estrema punta dell’Asia), passando
per la costa più settentrionale dell’America, caratterizzate da
mari così profondi da permettere l’avvicinarsi delle balene
(popoli dediti quindi prevalentemente alla pesca: Eschimesi – a
seconda delle lingue parlate: Inuit, Jupik, Sugpiaq – Aleutini,
Kutchin, Ciukci, Korjaki e Jukaghiri) e gli abitanti del continente
euroasiatico dalla costa bassa e paludosa (popoli che quindi vivono
prevalentemente di caccia più all’interno: Jakuti, Êveni, Êvenki,
Dolgany, Samioedi – a seconda delle lingue: Nganasani, Enci, Neci –
e Lapponi). Ma, a parte tale distinzione, si può parlare a pieno
titolo di una ‘cultura artica’ comune a tutti questi popoli.
Quali sono, allora, gli elementi
caratteristici della produzione mitico–fiabesca della cultura
artica? Torniamo ai temi del racconto in apertura. Dicevamo: i
ghiacci e i canti. Ovvero: l’ambiente naturale e la comunità degli
uomini.
Un ambiente durissimo come quello
artico ha da sempre educato – anche per esigenze di sopravvivenza,
nella certezza del reciproco aiuto – ad un forte senso di
appartenenza alla comunità. Da soli, tra i ghiacci, non si
sopravvive. Nel villaggio artico, così, non sono contemplate
iniziative autonome: tutto è collettivo, e tutto viene deciso
all’interno della comunità considerata sacra. La vita sociale è
molto intensa, e si esprime attraverso feste le cui componenti
basilari sono il canto, la danza, la condivisione del cibo, il dono.
È talmente importante questo momento collettivo che numerosi
racconti artici attribuiscono alla divinità il dono del canto, della
danza e della festa, ritenuti dunque sacri. Le feste si svolgono
nella ‘casa degli uomini’, l’ampia casa comune costruita
appositamente per consentire l’incontro di tutta la comunità: è
qui che si preparano gli eventi più importanti della vita del
villaggio – dall’organizzazione della caccia alla balena, alla
festa in onore dei morti – ed è qui che l’esperienza, la
saggezza e i valori di una generazione passano all’altra attraverso
la parola e, in particolare, la narrazione.
E la fiducia nel bene collettivo non
poteva non investire anche l’uso della parola: la possibilità che
la parola del prossimo possa contenere una menzogna è del tutto
estranea alla cultura artica. E così la parola, essendo sempre in sé
verità, ha la stessa potenza di una formula magica, ed è
considerata talmente preziosa che un proverbio aleutino afferma: ‘la
parola che esce indebolisce l’uomo, quella trattenuta invece lo
rafforza’.
Non bisogna però credere che, nella
‘casa degli uomini’, ogni narrazione debba trasmettere sempre un
messaggio che, se esistente, è spesso legato alle doti di
concretezza e pragmatismo necessarie alla sopravvivenza in un
ambiente così ostile. Nelle lunghe notti artiche molte storie sono
state inventate soltanto per incantare se è vero che, alla domanda
di un noto antropologo riguardo al significato della storia appena
trascritta, il narratore eschimese replicò: “Noi non ci
preoccupiamo troppo del significato di una storia. A noi basta che
sia divertente. Sono gli uomini bianchi che devono sempre trovare
ragioni o significati in ogni cosa, come i bambini che chiedono
sempre: perché?”.
Pur così unite nel bene collettivo, le
diverse comunità sono state però spesso tra loro ostili, e il tema
del conflitto ha creato un filone narrativo specifico: racconti di
battaglie per controllare rotte commerciali, di spedizioni per
rapine, di feroci guerre etniche dove i popoli nemici si trasformano,
nella sequenza delle trasmissioni orali, in mostruosi cannibali. Ma
la causa più frequente di ostilità riportata dai racconti artici è
di sicuro il rapimento delle donne del popolo vicino, spesso
organizzato con vere e proprie spedizioni. E in effetti, mentre
l’uomo mostrava la propria superiorità basata sulla forza fisica,
la presenza di una moglie in grado di confezionargli abiti adatti ad
un ambiente così ostile era essenziale alla sua sopravvivenza: una
moglie, al di là di ogni altra considerazione, rappresentava un bene
talmente prezioso che, in sua mancanza, era possibile anche il
rapimento.
Riguardo ai temi emersi dal racconto in
apertura, dicevamo poi: il Grande Vecchio dall’aspetto di tricheco,
l’uomo, gli animali. Ovvero: il rapporto dell’uomo con il mondo
animale e con quello dello spirito.
Nelle culture artiche è sempre
presente un Essere Supremo creatore dell’universo. Tuttavia si
tratta di un dio così coinvolto, anch’esso, nei rigori
dell’ambiente che viene ad essere in realtà una personificazione
divina del principio vitale della natura artica, connotato spesso in
forma di animale. Allo stesso modo, l’influenza sovrastante del
duro ambiente in cui vivono quei popoli si è espressa da sempre in
una percezione animistica della realtà circostante. Ogni roccia,
ogni lago, ogni animale possiede un’anima, proprio come il genere
umano – generato dallo sfregamento, all’orizzonte, della terra
con il cielo – che dunque, all’inizio dei tempi, non emergeva
sulle altre specie viventi. Questo spiega come nelle fiabe artiche
spesso non ci sia distinzione netta tra uomini e animali, tanto da
potersi facilmente tramutare gli uni negli altri, e come non emerga
una separazione – tipicamente occidentale – tra elementi naturali
e soprannaturali che invece convivono. Da ciò consegue, ad esempio,
la ricca ritualità legata alla necessità di riconciliazione con
l’anima della balena o dell’orso appena uccisi, e spiega anche
perché i Lapponi, prima di tagliare un albero, cacciavano l’anima
della pianta con un colpo di bastone per evitare che, una volta nel
fuoco, volendone fuggire distruggesse l’abitazione. La
diversificazione dell’uomo dagli animali avviene solo per
intervento dell’Essere Supremo che, ad un certo punto della storia,
invia un suo eroe (spesso il Corvo, ma anche l’Aquila o il Figlio
del Sole) perché possa educare l’umanità trasmettendole la
cultura.
Innanzitutto il canto e la danza, ma
anche l’arte della costruzione del tamburo sacro, oggetto che,
nello sviluppo culturale dei popoli artici, ha sempre svolto un ruolo
di fondamentale importanza. Non solo come amato strumento musicale
durante le feste, ma anche come oggetto divinatorio: lo sciamano,
infatti, batte il tamburo su cui sono stati dipinti i segni simbolici
tradizionali e, ad ogni colpo, un indicatore intagliato scivola sopra
quei segni fornendo gli elementi necessari per pronunciare l’oracolo.
Ecco dunque affiorare la figura forse più emblematica per
comprendere la cultura artica e le sue narrazioni: lo sciamano,
l’eletto in grado di partire dal mondo umano per viaggiare nel
mondo degli spiriti. Questo ruolo di intermediario ha sempre
presupposto, oltre ad un lungo apprendistato, attitudini psichiche e
intellettuali non comuni, una sorta di ‘vocazione’. Lo sciamano
diventa così detentore della tecnica dell’estasi, condizione che
riesce a raggiungere con il canto, la danza, e il suono ipnotico del
tamburo. Si crede allora che la sua anima abbandoni il corpo e viaggi
nell’aldilà per incontrare e vincere gli spiriti che hanno causato
la malattia derubando l’anima all’infermo. Lo sciamano è
accompagnato nell’impresa dal proprio spirito aiutante, in genere
zoomorfo, che si manifesta con l’imitazione in fase estatica dei
versi e delle movenze tipiche di quell’animale. Alla fine lo
sciamano ritorna, risvegliandosi dall’estasi, per spiegare dov’è
trattenuta l’anima del malato e quale eventuale sacrificio sia
necessario per la sua liberazione. A ben vedere la seduta sciamanica
percorre le stesse fasi di ogni narrazione fiabesca: l’eroe, in
seguito ad una chiamata, parte dal suo mondo – ovvero esce da sé –
ed entra in una dimensione atemporale – l’aldilà, o l’inconscio
– supera quindi una serie di prove grazie alle proprie risorse più
profonde e all’assistenza di un aiutante magico e, infine, ritorna,
rafforzato spiritualmente. Lo sciamano e l’eroe della fiaba
compiono in fondo lo stesso viaggio, che è poi quello della vita di
ciascuno di noi.
È così che, allora, proprio lo
sciamano artico può diventare l’eccezionale emblema di chi
sperimenta sulla propria pelle la potenza salvifica di ogni
narrazione.
Ma battendo il tamburo e imitando lo
spirito aiutante zoomorfo, lo sciamano svela anche il profondo legame
che unisce da sempre uomo e animali, uomo e ambiente: lo sciamano
canta i canti dei ghiacci.
Canti che oggi sembrano sciogliersi in
disperate grida d’aiuto di fronte ai segni allarmanti di un legame,
quello tra uomo e ambiente, che invece si sta spezzando.
Segni che, come tutti i
segni ormai tracciati, sono ancora più evidenti sul bianco più
candido.
1tratto
da Luigi Dal Cin, I canti dei ghiacci: le fiabe delle Regioni
Artiche, saggio
introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della Fantasia –
26a Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia’,
ottobre 2008
2tratto
da ‘Il Grande Vecchio dall'aspetto di tricheco’, Luigi Dal Cin,
I canti dei ghiacci – Fiabe dalle Regioni Artiche, Franco
Cosimo Panini Editore, 2008