5. Echi di mari lontani: le fiabe
dall’Oceania1
Alla fine di un lungo tempo Tangaroa diede un colpo lieve alla sua conchiglia, che si aprì. Tangaroa allora si alzò in piedi sulla conchiglia e cominciò a gridare nello spazio infinito: “Chi c’è sopra? Chi c’è sotto?” ma non ebbe alcuna risposta. Si sentiva solo la sua voce, perché non ce n’era nessun’altra. “Sabbia, vieni da me!” comandò. Ma la sabbia non c’era ancora. “Nessuno mi obbedisce? – disse Tangaroa – Allora farò io!”. Così Tangaroa sollevò in alto la cupola della sua conchiglia fino a formare la volta del cielo. E poiché all’interno della sua conchiglia aveva molte altre conchiglie, ne prese una seconda, la sgretolò in minuscoli pezzettini, e creò la sabbia. Tangaroa cominciò in questo modo a creare ogni cosa che esiste. E poiché Tangaroa aveva conchiglie, ecco che ogni cosa creata ha una sua conchiglia. Il cielo è una conchiglia per il sole, la terra e le stelle, poiché li contiene. La terra è una conchiglia per le pietre e l’acqua, e per le piante che vi crescono. La conchiglia di un uomo è una donna, perché è da lei che nasce.
È così che, nell’universo, ogni cosa che esiste ha una sua conchiglia.2
Proveniamo tutti dalle conchiglie,
racconta questo mito della creazione narrato a Tahiti.
Ovvero: proveniamo tutti dall’Oceano,
di cui possiamo ancora ascoltare echi lontani impressi, da tempi
ancestrali, come impronte nelle nostre anime.
L’Oceano Pacifico è il più grande
mare del nostro pianeta. Dalle sue acque emergono qua e là più di
diecimila isole, grandi e piccole, che collegano come un ponte Asia,
Indonesia e Australia all’America.
Da sempre il Pacifico ha esercitato un
influsso misterioso e carico di immaginario sull’uomo occidentale.
Navigatori, esploratori, missionari; ma anche scrittori, come
Melville e Stevenson, pittori, come Gauguin, hanno affrontato il
grande viaggio alla ricerca di un altrove, e ci hanno riportato gli
echi di quell’immenso Oceano.
Sono proprio il viaggio e l’altrove
originario a costituire le dimensioni più profonde che accomunano
tutte le culture dei popoli dell’Oceania: sia quella del piccolo
gruppo degli Aborigeni che abitano l’immensa Australia, sia quella
delle numerose genti che abitano piccole porzioni di terra emersa nel
Pacifico, a volte addirittura difficili da trovare sulle mappe. Non è
però dalle carte geografiche che si conosce la realtà dei giorni e
della vita, e il loro vero valore. L’occhio mediatico globalizzato
non riesce a scorgere ciò che è più piccolo. E la cultura espressa
da un popolo, la vivacità, l’arte, le sue fiabe non dipendono da
grandezze geografico–quantitativo–mercificabili, ma da sintonie
secolari con la natura, da relazioni di condivisione comunitaria, da
profondità di rapporti spirituali con l’altrove da cui tutti
proveniamo e verso il quale stiamo tutti navigando.
Ed è proprio nelle narrazioni delle
fiabe che i popoli dell’Oceania vivono ancora oggi la loro forte
relazione con un altrove originario e con il viaggio. E proprio nelle
fiabe – preziosi reperti antropologici – si possono trovare le
risposte sulle loro origini.
Gli antenati dei popoli delle Isole
dell’Oceania provenivano dal continente asiatico. I primi viaggi di
queste popolazioni verso il Pacifico si fanno risalire a circa 4.000
anni fa, e furono possibili grazie ad abili conoscenze delle tecniche
di navigazione. La ragione per cui gli antenati si lanciarono in
lunghi viaggi colonizzatori a bordo delle loro canoe oceaniche, i
waca, resta un mistero. Si sa però che le loro imbarcazioni
potevano trasportare fino a 250 persone, oltre alle piante e agli
animali necessari per iniziare una nuova vita. Samoa e Tonga furono i
primi gruppi di isole ad essere occupate: queste regioni possono
essere considerate come la patria della cultura polinesiana, che qui
sviluppò i suoi caratteri peculiari. Da questa zona l’esplorazione
continuò verso le Isole Marchesi e della Società; alcune tribù
proseguirono poi verso sud–est fino a raggiungere Rapa Nui (l’Isola
di Pasqua), verso nord fino alle Isole Hawaii, verso sud–ovest fino
ad Ao–tea–roa, la terra della grande nuvola bianca, ovvero la
Nuova Zelanda. Nel 1300 d.C. il periodo di espansione era completato,
e per i popoli delle Isole iniziò un tempo di stabilità e di
equilibrio (che durò fino all’arrivo dei primi uomini bianchi). Li
accomunava il fatto di considerarsi tutti provenienti da un’unica
madrepatria mitica chiamata Hawaiki, simbolo di un’origine
lontana, dell’altrove leggendario degli antenati, da cui era
partita la Grande Emigrazione narrata poi di padre in figlio.
La storia moderna dei Maori della Nuova
Zelanda, ad esempio, prende il via dalle sette gloriose canoe. I
viaggi relativi a ciascuna canoa hanno segnato scie leggendarie e
lasciato qua e là indizi misteriosi. I loro racconti, tramandati
oralmente, hanno sempre costituito presso i Maori motivo oltre che di
orgoglio anche di diritto: derivano infatti dalla discendenza dagli
antenati della propria canoa sia la fondazione del proprio gruppo
tribale sia il proprio diritto territoriale. Ma la definizione delle
culture originarie delle terre d’Oceania – dove la fioritura dei
racconti dei primordi appare non a caso più copiosa che in ogni
altra parte del mondo – non è sempre univoca, anzi: lascia invece
spazio a influenze e connessioni legate alla complessità degli
eventi migratori solo in parte ricostruiti dagli studiosi, dove
cosmogonia e antropogenesi si intrecciano in una successione
evolutiva che abbraccia i fenomeni naturali, gli uomini e le
divinità. Il poema sacro che, ad esempio, gli indigeni cantarono al
capitano Cook al suo arrivo connetteva la famiglia reale con le
generazioni divine, le stelle, le piante e gli animali. Correva
l’anno 1769, ed erano passati quasi due secoli dal primo contatto
che i popoli delle Isole avevano avuto con i papalagi ‘venuti
dal cielo’ (così gli abitanti di Samoa e di Tonga chiamavano gli
stranieri: dato che il loro mondo non andava oltre le loro isole,
chiunque non vi appartenesse non poteva che provenire da altri
mondi). Fu infatti nell’anno 1595 che Mendaña scoprì le Isole
Marchesi e sbarcò a Tohu Ata. Quando ne ripartì, poco dopo, i suoi
archibugieri avevano già ucciso duecento isolani senza un vero
motivo.
Eppure, nonostante l’arrivo
devastante dei papalagi e secoli di colonialismo europeo che
modificò le strutture sociali originarie e che diffuse epidemie
decimando le popolazioni, l’atteggiamento di accoglienza del
viaggiatore è un valore profondo e naturale per questi popoli che
non hanno mai dimenticato che i loro padri sono stati essi stessi
viaggiatori: uomini ‘altri’ in terre altrui. Ancora oggi, quando
si arriva in barca presso qualsiasi piccola isola dell’Oceania, non
si pensi di gettare l’ancora nella baia e di fare subito il bagno.
La prima cosa da fare è la visita al capo. E non si tratta affatto
di una pratica doganale, al contrario: è un’usanza piacevole. Ci
si accorda per un appuntamento al quale andare con un dono simbolico:
un pezzo di stoffa, una bevanda, del cibo, una propria moneta. Si
verrà accolti dal capo dell’isola che domanderà da dove si viene
e come si vive laggiù. Si tratta di accoglienza, di autentico
desiderio di conoscere l’altro e il suo altrove, perché nella sua
pellegrina condizione si riconosce la propria antica storia di
viaggiatori.
Esiste un altrove mitico e un grande
viaggio anche nei racconti tradizionali degli Aborigeni d’Australia.
Gli antenati degli Aborigeni arrivarono
dal sud dell’India circa 50.000 anni fa, quando l’Oceano non era
così profondo e lasciava emergere terre e isole che fecero da ponte
per il loro passaggio: raggiunsero così il vastissimo e disabitato
territorio dell’Australia, ricco di selvaggina, e vi si
stabilirono. Poi il ponte di terre fu sommerso e l’Australia rimase
isolata dal resto del mondo insieme alle sue tribù aborigene che per
millenni vissero in equilibrio perfetto con la natura arrivando ad
una popolazione di trecentomila unità. Appena un secolo dopo
l’arrivo del capitano Cook, avvenuto nell’anno 1770, gli
aborigeni erano ridotti a meno di sessantamila, cacciati dai loro
territori e spinti in quelli più inospitali, decimati da massacri e
malattie sconosciute, considerati dall’ignoranza e dalla protervia
dei colonizzatori come il gradino più basso dell’umanità. Eppure
la società aborigena presentava la più complessa struttura
organizzativa mai concepita in una cultura tribale, esprimeva una
profonda concezione spirituale della vita e una raffinata mitologia
che trovavano espressione nelle cerimonie sacre, nelle danze, nei
canti e nella narrazione. La cosmogonia aborigena possiede un tale
fascino da essere spesso paragonata a quella greca, e si riferisce
sempre ad un altrove mitico temporale: il ‘Tempo del Sogno’. Gli
aborigeni sono convinti che il mondo e l’uomo siano stati creati da
Eroi soprannaturali in seguito scomparsi, essendo saliti in cielo o
scesi sotto terra. Nel ‘Tempo del Sogno’ questi Eroi mitici si
risvegliarono e cominciarono ad uscire in superficie. I loro ‘luoghi
di nascita’ rimasero impregnati di una grande forza spirituale, e
caratterizzarono la sacralità del territorio aborigeno. La maggior
parte dei miti della creazione raccontano proprio dei viaggi di
questi grandi Eroi che, nelle loro peregrinazioni, modificarono il
paesaggio imprimendogli la configurazione attuale. Questa percezione
della sacralità delle origini, del viaggio, e dell’ambiente, e
tutte le conseguenti leggi tribali che sostenevano un perfetto
equilibrio tra l’uomo e la natura – e che hanno ancora molto da
insegnare alla società occidentale – hanno permesso a questo
popolo di sopravvivere in pace per migliaia di anni, con regole
troppo sagge per essere poi comprese dai colonizzatori bianchi.
I miti del ‘Tempo del Sogno’ e le
regole di comportamento umano dettate dagli Eroi sono considerate
dagli aborigeni rivelazioni di verità assolute: ogni tribù ha il
dovere di conservarle e di insegnarle ai giovani attraverso le fiabe.
Sono fiabe, dunque, sempre ambientate in un altrove temporale, legate
a un viaggio e a un luogo sacro appartenente ad una complessa
geografia totemica, in cui si muovono gli animali del ‘Tempo del
Sogno’: canguri che a quel tempo camminavano ancora a quattro
zampe, spaventosi serpenti, koala vanitosi, uccelli favolosi, rane,
tartarughe, balene... in questi racconti c’è una costante
predilezione per gli animali: per via del carattere distinto delle
differenti specie animali che permette, in modo più efficace
rispetto a quanto possa avvenire con i membri indifferenziati della
specie umana, di sostenere le diverse parti in una narrazione.
L’altrove e il viaggio, dunque,
figure comuni alle genti delle Isole e alle genti aborigene, ma anche
l’amore per la terra: faticata conquista dopo pericolosi mitici
viaggi attraverso l’Oceano per gli uni, espressione della sacralità
creatrice nel ‘Tempo del Sogno’ per gli altri; sempre
rappresentata nelle fiabe da scenari naturali affascinanti.
Tematiche profonde, vissute dai popoli
aborigeni e dai popoli delle Isole in un costante completo equilibrio
tra uomo e ambiente; destinate in seguito – nelle vicende di
entrambi i popoli – ad essere travolte da una stessa storia
estranea e violenta fatta di assimilazione forzata; oggi finalmente
toccate da un comune vitale processo di rivalutazione culturale:
delle proprie identità, delle proprie tradizioni, dei propri luoghi.
Resa possibile proprio
grazie agli antichi echi delle fiabe ancora oggi narrate.
1tratto
da Luigi Dal Cin, Echi di mari lontani: le fiabe dell’Oceania,
saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della
Fantasia – 27a Mostra Internazionale d’Illustrazione per
l’Infanzia’, ottobre 2009
2tratto
da ‘L'universo conchiglia’, Luigi Dal Cin, Echi d'Oceano –
Fiabe dall'Oceania, Franco Cosimo Panini Editore, 2009