sabato 25 agosto 2018

Le fiabe che oltrepassano i confini # 7 - Il grande albero delle rinascite: le fiabe dalle terre d’India

7. Il grande albero delle rinascite: le fiabe dalle terre d’India1

Quello che gli antropologi definiscono come ‘Subcontinente indiano’ è una vasta area che raccoglie territori accomunati dalle medesime radici storico–culturali: le sterminate regioni dell’India, ma anche lo Sri Lanka, il Nepal, il Bhutan, il Bangladesh e il Pakistan.
In questo esteso territorio circolano da millenni gli stessi antichissimi miti, le medesime leggende, parabole, fiabe, favole, epopee, aneddoti, racconti… le terre d’India sono ricchissime di un’immensa varietà di storie: celebrazioni di una fede nella sconfinata varietà dell’universo, nel simultaneo verificarsi di tutto, nella coesistenza di tutte le possibilità senza che esse si debbano escludere a vicenda. Così le storie si intersecano, in India, si sovrappongono in tutte le loro forme. Si ripetono in versioni brevi e lunghe. E quando sono lunghe, lo sono davvero, tanto che per raccontarle occorrono giorni. Giorni e notti. E quando infine le raccogliamo per metterle insieme, formano una distesa smisurata come l’Oceano dei Fiumi dei Racconti di Somadeva.
Si sosteneva, già in epoca romantica, che l’India fosse la madre di tutta la nostra letteratura. Oggi, di sicuro sappiamo che alcuni testi, come le favole e le fiabe, grazie alla loro brevità e semplicità, grazie all’universalità del loro messaggio, dall’India, dove sono nate, hanno viaggiato facilmente fino all’Occidente. Certo, la strada le ha trasformate: si sono mascherate e hanno assunto le apparenze del paese che le ha accolte.

Le fonti antiche
È necessario a questo punto comprendere le fonti in cui tutte le storie indiane affondano le loro radici. Le fonti maggiori dei racconti mitici dell’Induismo sono costituite da testi composti in sanscrito, lingua indoeuropea parente stretta del greco e del latino. La fonte più antica – in realtà, il più antico documento d’una lingua indoeuropea – è il Rgveda, raccolta di più di mille inni destinati ad accompagnare i sacrifici per le divinità e trasmessi oralmente per diversi secoli prima d’essere messi per iscritto attorno al 1200 a.C. I testi successivi sono i Brahmana (900–700 a.C.), trattati sacerdotali ricchi di dettagli che fanno riferimento alla mitologia per spiegare i riti. Un corpus di nuovi racconti viene introdotto nel Mahabharata (300 a.C.–300 d.C.), la grande epopea dell’India che consta di oltre centomila strofe: dieci volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme. In India si dice: “Quel che non c’è nel Mahabharata, non esiste da nessun’altra parte”.
Il Ramayana (200 a.C.–200 d.C.), l’altra grande epopea in lingua sanscrita, è di gran lunga più omogeneo del Mahabharata, più breve e più sofisticato nello stile letterario: consta di sette libri, il nucleo del poema è la narrazione delle avventure di Rama, ma i libri primo e settimo includono molte altre importanti narrazioni mitiche. Le fonti di gran lunga più estese per la mitologia dell’Induismo sono però i diciotto ‘grandi’ Purana e i numerosi Purana ‘minori’, vere enciclopedie del pensiero indiano, riletture induiste dei più antichi racconti mitici.
Amore, passione, rivalità, odio, tradimento, fedeltà, rinuncia, orgoglio, santità, eroismo, pazienza, temerarietà, eccesso e generosità dominano queste epopee dove gli uomini, nella loro saggezza e nella loro follia, si confrontano con il divenire del mondo. Gli dei e i demoni si mescolano ai mortali, generano dei figli dai poteri superumani, proteggono i loro devoti e li iniziano all’uso di armi terrificanti che possono annientare l’universo in un istante. Il meraviglioso si mescola al quotidiano. Un brahmano si trasforma in gazzella per soddisfare i propri desideri; una scimmia si muta in monaco errante per condurre la propria ricerca interiore; con un salto il dio Hanuman, comandante delle armate delle scimmie, sfiorando il sole che non lo brucia, supera l’oceano e atterra in Sri Lanka; gli alberi si trasformano in clave nelle mani degli eroi, le cui gesta sono degne degli effetti speciali del cinema contemporaneo.
Affacciarsi all’enorme ricchezza di questi testi antichissimi è come sporgersi su un paesaggio di straordinaria profondità, varietà e bellezza: una vertigine ammaliante.

Il Panchatantra: la favola in India e la favola in Europa
I termini ‘favola’ e ‘fiaba’, sebbene a volte siano impropriamente utilizzati in modo indistinto, non sono affatto sinonimi e si riferiscono a generi letterari differenti. La favola è un racconto breve che ha come protagonisti per lo più degli animali che personificano i comportamenti – sia le virtù che i vizi – dell’uomo, e in cui la morale è esplicita.
Benché fissate molto tardi nelle forme che noi conosciamo, le favole indiane sembrano tanto antiche quanto le favole di Esopo. Senza entrare nel problema dei rapporti tra le due tradizioni, dobbiamo riconoscere quanto il genere fosse più affine alla cultura indiana che a quella greca, se consideriamo i tratti generali costituiti da una combinazione di intenti edificanti e di divertimento, l’alternanza di versi e prosa, e l’idea stessa di mettere in scena animali dotati di sentimenti umani. L’India non conosce infatti la distinzione, così come la applichiamo noi occidentali, tra uomini e animali: la credenza nella trasmigrazione dell’anima spiega l’eterno interscambio tra i due regni. È vero che tutte le popolazioni più antiche – non solo quelle indiane – hanno sperimentato, nei racconti, una commistione tra uomini e altri esseri del creato, ma mentre il progresso nella cultura occidentale portava l’uomo e gli animali ad una netta separazione, per gli indiani essi si avvicinavano sempre più, proprio per la dottrina della metempsicosi che domina ancora oggi il pensiero induista.
Le favole indiane più antiche sono già presenti nel Mahabharata tra le molteplici storie che contiene. E così mentre Yudhisthira, uno dei cinque fratelli Pandava, eroi del Mahabharata, si chiede quale comportamento debba adottare un sovrano povero di risorse, viene introdotto un dialogo tra il Gange e l’Oceano che rispecchia esattamente la favola dell’ulivo e della canna in Esopo:

Caro sposo Oceano – disse la dea Gange – gli alberi si innalzano superbi nella loro posizione, e quando viene la mia piena si oppongono presuntuosi alla corrente: è proprio per questa loro resistenza che devono poi abbandonare la propria sede. La canna invece, se vede avvicinarsi la piena, la sa accogliere, e accetta di piegarsi. Così, quando la piena è passata, eccola di nuovo salda al suo posto. La canna sa riconoscere il tempo giusto, non è mai superba, sa accettare anche gli eventi negativi, non dispera mai e conosce l’umiltà. Ecco perché non viene trascinata via”.

Ma è il successivo Panchatantra a rappresentare, senza dubbio, una delle raccolte di favole più famose, sia nel suo paese di origine che altrove. Messo per iscritto ad una data incerta, tra il I e il VI secolo d.C., il libro aveva lo scopo di iniziare i giovani principi all’esercizio del potere. L’introduzione narra di un re che aveva tre figli svogliati e indolenti. Di fronte alla sua preoccupazione, un consigliere gli raccomandò di rivolgersi ad un saggio brahmano. Quest’ultimo, Vishnusharma chiamato anche Pilpay, accettando la missione che gli stava affidando il re, affermò che giorno dopo giorno, in capo a sei mesi, i tre figli sarebbero divenuti ‘uomini senza pari nella scienza del governo’. Così compose proprio per loro il Panchatantra, il cui metodo – istruire divertendo attraverso un’affascinante sequenza di favole sulle diverse filosofie della vita – diede ottimi frutti.
Anche se le storie sono inserite le une nelle altre, ogni favola può essere letta indipendentemente: questo fattore contribuì al loro successo e alla facilità con cui hanno circolato. Ecco così che le favole indiane sono arrivate fino a noi dopo aver percorso un lungo cammino. Dall’India, ad esempio, il Panchatantra ha raggiunto la Persia dove, nel VI sec., un re sassanide lo fece tradurre in pahlavi facendovi aggiungere altre storie provenienti dal Mahabharata. Questa versione, oggi perduta, servì da base alla traduzione araba di Ibn al–Muqaffa. All’inizio della raccolta indiana, un ruolo importante viene assegnato a due sciacalli, Karakala e Damanaka. I loro nomi, in arabo Kalila e Dimna, divennero il titolo di un’opera ancora diversa, ma che sempre si riferiva ai modelli indiani. La raccolta di Ibn al–Muqaffa poi fu tradotta molte volte, di sicuro in aramaico e in greco. Tra il 1263 e il 1273 Jean de Capoue ne propose una versione latina in Liber Kalilae et Dimnae o Directorium vitae humanae che fu poi trasposta in tedesco, spagnolo e francese. Parallelamente, l’opera araba tradotta in persiano divenne Il Libro dei Saggi o La Condotta dei Re che arrivò in Francia con il titolo di Fables de Pilpay, che ci conduce diritti a La Fontaine. Quest’ultimo non esitò a riconoscere il suo debito nei confronti dei predecessori indiani: “Dirò per riconoscenza che devo gran parte del mio lavoro a Pilpay, saggio indiano”, scrisse nella prefazione del suo settimo libro di favole. Non a caso Vishnusharma–Pilpay viene comunemente chiamato anche ‘Padre delle favole dell’Occidente’.
Il rapporto tra la favola indiana e quella europea rappresenta solo uno dei numerosi tasselli letterari che legano la cultura dell’Europa e quella dell’India.
Per secoli l’aggettivo ‘misterioso’ utilizzato riferendosi all’India dai viaggiatori europei ha espresso invece, il più delle volte, un approccio superficiale, un alibi per non avventurarsi davvero nelle profondità della millenaria cultura indiana. Per contro, proprio gli europei, traducendo con passione nell’800 gli antichi testi scritti in sanscrito – lingua appannaggio della sola casta brahmanica – hanno consentito la diffusione della cultura indiana tra gli indiani stessi.

Le fiabe indiane: i temi e i personaggi
La fiaba, a differenza della favola, è invece un racconto popolare di meraviglie, dove l’elemento fantastico e soprannaturale non è vissuto come straordinario, ma viene presentato come normale e abituale. Nella fiaba la dimensione naturale e terrena s’intreccia continuamente con la dimensione soprannaturale e magica. Ma più che nei contenuti meravigliosi, la forza della fiaba risiede nel suo intento profondo: a differenza della favola che ha un intento prettamente morale, il proposito davvero meraviglioso della fiaba è quello di annunciare che una vita piena è alla portata di ciascuno nonostante le avversità e le condizioni iniziali sfavorevoli, a patto che si affrontino quelle rischiose lotte senza le quali non si può raggiungere la propria vera identità.
Il grande albero delle fiabe indiane affonda così le sue lunghe radici nella millenaria tradizione orale (che ha trovato poi forma scritta nelle fonti antiche già menzionate, nelle numerose raccolte di racconti Brahmanici e Jaina, prevalentemente in sanscrito, o nelle raccolte di racconti composti nelle antiche lingue medio–indoarie dalle quali deriva, ad esempio, una delle primissime forme delle Mille e una notte) un groviglio di saperi di sorprendente antichità che si è saputo continuamente rinnovare in nuovi germogli narrativi: proprio come fa il Banyan, detto anche ‘albero della conoscenza’, simbolo della trasformazione e del tempo perché si sa rigenerare attraverso i propri stessi rami che, con il tempo, si piegano verso il terreno e diventano poi radici di nuovi virgulti. Le storie partono dalla tradizione orale per ritornare poi a nutrirla; rimbalzano tra i manoscritti sanscriti e i cantastorie di villaggio, e ciascuno aggiunge qualcosa di nuovo. Come il Banyan, la radice orale esce dal terreno e produce rami scritti, ma questi poi continuano a crescere affondando di nuovo nella terra, e danno vita a nuove radici e a nuovi tronchi, a nuove oralità.
Al di là dei facili stereotipi occidentali, ecco allora l’India in cui si rivela l’umanità del divino e la capacità dell’uomo di trascendere i propri limiti, ecco asceti cosparsi di cenere, maharaja barbuti e fieri, aggraziate danzatrici, astuti mercanti, fruscii di seta, tessuti d’indaco e amaranto, giallo zafferano e piume di pavone, che si muovono in ambienti multiformi: città dedalo, risaie smeraldo, palazzi di arenaria rosa che risuonano del tintinnio delle cavigliere, bazar dai profumi speziati, ma anche picchi innevati, deserti desolati, fiumi sacri, foreste rigogliose abitate da animali dal pensiero sottile. Una straripante umanità tutta in movimento, con le radici nel Gange e il cuore sulle vette Himalayane.
E accanto ai fasti e alle glorie delle corti, presenti nei racconti delle caste più alte, compaiono una varietà di elementi che si condensano in alcune categorie tradizionali appartenenti alle caste più basse quali, ad esempio: le differenze tra uomo e donna, sia essa la sposa virtuosa che si immola sulla pira del marito defunto, sia essa la donna comune, assai concreta; i vari tipi umani, dall’avaro allo stolto, dal gradasso allo scaltro, dal figlio dissennato senza un briciolo di cervello al burlone o all’astuto che trionfano sulle difficoltà della vita; le sofferenze che accomunano tutti gli uomini, con demoni e dei che perseguitano i poveri mortali senza dare loro tregua...
Le divisioni di casta, tanto fondamentali nella società indiana, portano a trasferire nelle fiabe i tabù, le rivalità, i conflitti e i codici comportamentali della realtà, con la possibilità, però, di scegliersi un lieto fine che veda vincitrice la casta all’interno della quale si tramanda la fiaba.
Animali quali cobra, serpenti, aquile, scimmie, lucertole, sciacalli, tigri ed elefanti occupano di sovente, nei racconti, ruoli di rilevo.
Le fiabe indiane, poi, riportano spesso reminescenze classiche che offrono un vitale campionario di affascinanti personaggi come i naga, creature in parte umane e in parte serpenti; i kimpurusha, abitanti delle montagne con il corpo umano e la testa di cavallo; i kinnara, esseri così singolari che il loro nome è una forma interrogativa che significa letteralmente: ‘Chi è questo, un uomo?’; i rakshasa, spaventosi demoni che portano malattie terribili come la peste, divorano gli uomini e desiderano le loro donne; i vidyadhara, esseri soprannaturali abitanti sull’Himalaya, possessori di poteri magici; i valakhilia, mitici nani alti un pollice che cantano inni vedici; le asparas, bellissime ninfe celesti divenute fate nella tradizione popolare e simili, per alcune connotazioni, alle fanciulle cigno delle saghe scandinave: somiglianze che rimandano ad un antichissimo fondo comune fiabesco indoeuropeo.

E sopra tutto: la parola
E sopra tutto l’importanza e la potenza della parola pronunciata che in India si incarna addirittura in una divinità: Vac, il discorso, che in quanto inno – preghiera o formula magica – può indurre gli dei a concedere doni, e in quanto maledizione, soprattutto per bocca di un brahmano, conduce alla rovina sicura. Sono parimenti divinità in sembianze umane alcuni incantesimi, in particolare i vidya (i saperi) della letteratura Jaina, immaginati come dee col cui possesso si diventa esseri divini, vidyadara ovvero ‘portatori di saggezza’ dotati di capacità sovrannaturali.
In India la parola è efficace.
In India, ad esempio, le formule di benedizione e di maledizione non si sono scolorite, come in Europa, trasformandosi in semplici espressioni di cortesia o di sdegno. Hanno invece un effetto magico. Nessuno di noi immagina niente del genere quando augura ‘Salute!’ a chi ha appena starnutito. L’indiano che, nella medesima circostanza, esclama ‘Jiva!’ (Che tu viva!) è sicuro di impedire al soffio vitale di sfuggire dal naso di colui che starnutisce.
Una parola pronunciata che però, in India, non è immobile, per sempre definita, o che esclude il cambiamento, ma una parola che sa sempre accogliere ogni nuova varietà per comprenderla in sé. Una parola che, come già detto, sa celebrare una fede nella coesistenza di tutte le possibilità senza che esse si debbano per forza escludere a vicenda. Una parola il cui significato sa rinascere ogni volta che viene pronunciata.
Ecco allora l’importanza del racconto orale grazie al quale le storie rinascono e si trasformano passando di padre in figlio, di villaggio in villaggio, attraverso un tempo ciclico fatto di avvenimenti che si ripetono, apparentemente diversi, ma fondamentalmente uguali. E la fluidità della tradizione indiana, sia orale che scritta, è soltanto uno degli aspetti della più generale fluidità dell’atteggiamento indiano verso tutti i tipi di verità. Il cantastorie può recitare un mito in un certo modo, per essere poi interrotto da qualcuno fra il pubblico che, ascoltando il racconto, dice: “Noi l’abbiamo sentito diversamente”. E quando viene narrata la seconda versione, il cantastorie risponde: “Anche questa è vera, ma la tua versione è accaduta in una diversa era cosmica”, a significare che lo stesso evento si può ripetere più e più volte, ogni volta in modo leggermente diverso. E questo garantisce alle storie raccontate la possibilità di sopravvivere ai cicli cosmici, noncuranti del fatto che le pagine delle loro versioni scritte siano divorate dalle formiche o marciscano al caldo umido del monsone.
La trasformazione dell’universo viene così assecondata, e l’immaginazione dell’uomo viene fatta salva, perché ricrei ogni volta da sé l’ordine del mondo, in una nuova storia da raccontare.
È così che, dietro un’India, ecco che ne appare un’altra, e poi un’altra ancora: alla ricerca di un’essenza che è l’identità tra l’unità e la molteplicità, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra l’albero e il seme, tra l’universo e l’uomo.


1 tratto da Luigi Dal Cin, Il grande albero delle rinascite: le fiabe delle terre d’India, saggio introduttivo al volume catalogo ‘Le Immagini della Fantasia – 29a Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia’, ottobre 2011